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Quando il carcere devasta i familiari dei detenuti

Una nuova riflessione che - per motivi di spazio - propongo solo in parte. A scriverla è Lorella Sanguanini impegnata, anche su Facebook, a sensibilizzare l'opinione pubblica sulla reale situazione carceraria in Italia. La versione integrale di questa importante testimonianza sarà riportata nel libro-intervista a don Pietro Zardo.

Un giorno ormai lontano - ma solo nel tempo -, agli inizi degli anni ’90, quando tentavo di ricostruire il rapporto con il mio compagno (nonché padre di mia figlia), la mia vita cambiò. Non ebbi quasi il tempo di scendere dall’auto al rientro a casa, che lo portarono via, ammanettandolo e spingendolo in auto, sotto i miei occhi, senza volermi dare alcuna spiegazione. In quel preciso istante il mio pensiero andò a mia figlia e ringraziai il caso, più unico che raro, che non fosse con me. Ricordo la corsa in caserma, le lacrime che mi scendevano parlando al telefono con l’avvocato; non volevano dirmi niente, non potevo parlargli, tanto meno vederlo. Dopo un po’ notificarono anche a me un avviso di garanzia per un qualche reato a me lontano, che nemmeno presi in considerazione: ero solo preoccupata per lui. Poi pian piano cominciai a capire: c’era di mezzo la droga, ma io non ci credevo. Mi scortarono a casa e la perquisirono, senza trovarci nulla. L’indomani sul giornale in prima pagina, “maxiretata”, con nomi e cognomi, che coinvolgeva anche altre nazioni, non solo l’Italia. Lui venne tradotto nella notte a San Vittore, a circa cinquecento km di distanza; avevano spezzato in due l’inchiesta: i pezzi chiamiamoli “grossi” venivano giudicati dalla Procura di Milano e gli altri, me compresa, da quella della mia città. Cominciai così a prendere il treno alle 4 del mattino una volta al mese per andare a trovarlo. Da subito capii quanta “ignoranza” c’è nella gente che non viene, per sua fortuna, nemmeno sfiorata dal carcere. A partire dalle quelle stupide battute che si fanno, “non fare lo scemo che sennò devo portarti le sigarette o le arance”, in carcere non puoi portare quasi nulla; ho visto madri e mogli con teglie piene di cibo preparato con amore vederselo rifiutato, oppure panettoni per Natale che se giungevano a destinazione erano ridotti in briciole perché dovevano venir controllati. Puoi lasciare denaro, se ce l’hai, anche vestiario, ma già per un libro devi fare una domandina speciale, devi farlo dall’altro ingresso ed aspettare l’iter burocratico. Ho visto la disperazione o ancor peggio la rassegnazione sui volti delle donne, donne come me, con bimbi piccoli a cui dicevano “adesso andiamo a trovare papà in ospedale”, ed i bimbi increduli fare la fila assieme alle loro mamme, prima per lasciare i vestiti e qualche genere alimentare concesso, poi per lasciare i soldi, poi per entrare e venir perquisiti dalla testa ai piedi. Ti fanno levare tutto: scarpe, mutande, pannolini dei bimbi, insomma proprio tutto. Ci volevano due, anche tre ore, prima di riuscire ad entrare e parlare con il tuo caro. Poi finalmente credi di vederlo, di poterci parlare, e sì, lo vedi, ma dietro ad un vetro e lo senti a mala pena perché ci sono le voci di tutti gli altri visitatori e detenuti che sovrastano la sua. L’iter non cambiava di molto neanche per le altri carceri che ho girato. Ne ho girate alcune, perché lo spostavano e speravamo in un riavvicinamento a casa, su apposita domandina, si intende. Milano, Bergamo, Padova,Tolmezzo, una piccola tappa a Trieste perché doveva testimoniare al processo in cui ero anch’io coinvolta mio malgrado. Bergamo era l’unico che non aveva il vetro, ma guai se ti sfuggiva un abbraccio o una semplice carezza: venivi subito richiamata dalle guardie con il rischio di veder troncata quell’unica ora che avevi per vederlo.
Regole, regole rigide per noi visitatori e per loro ancor di più. Ed io pensavo che bastasse seguire le semplici regole della vita civile per non incorrere in questa tragedia, ma la possibilità di soldi “facili”, aveva accecato il suo giudizio senza pensare alle conseguenze né
per lui né per la sua famiglia, né tanto meno per la società. In un modo o nell’altro pensi sempre che a te certe cose non possano mai capitare. Ti rimangono le lettere, che però venivano tutte aperte e controllate, come anche le rare telefonate. Il destino volle che dopo poco tempo mi resi conto di essere incinta e questo non potevo dirglielo per lettera, affrontai un viaggio in più per comunicargli di persona che dovevo abortire, che il nostro secondo figlio non poteva nascere: già era duro affrontare tutto questo per la primogenita. Questo è stato il colloquio più duro per tutti e due; credo non ci sia bisogno di spiegare il perché. [continua...]

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