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Il carcere di Treviso, la parola a don Pietro Zardo

Anticipo una parte della lunga intervista rilasciatami da don Pietro Zardo.

Don Piero, cosa ha provato la prima volta che è entrato in un carcere?
Ho conosciuto il mondo carcerario nel 1996: prima di allora non ero mai entrato in un penitenziario. Quando penso al mio primo ingresso, ricordo che provai un'emozione molto strana, per certi aspetti impressionante: capisci subito di trovarti in un ambiente difficile. Percorrere corridoi e locali di un edificio dove si sentono grida e dove vedi dappertutto cancelli, porte, chiavi, sbarre, ti costringe a interrogarti sul senso della libertà e ti chiedi dove sei finito. Il carcere è un luogo disumano dove vige la regola della sopravvivenza. Ciascuno vive per sé. Non esiste quel sistema relazionale che ti permette uno scambio di sentimenti umani, come quelli legati all'accoglienza, alla fiducia, alla solidarietà. Non ci sono aree comuni e anche i pasti vengono consumati in cella. Col tempo non mi sono più posto certe domande e sono cresciuto sul campo, perché quando accettai di fare il cappellano a Santa Bona non avevo una specifica formazione. Subito, però, capii che non bisogna commettere certi sbagli, come infrangere quella infinità di norme che regolano l'accesso e la frequenza alla struttura penitenziaria.

Il primo impatto col carcere è stato quindi molto forte, anche per come sono iniziati i suoi rapporti con i detenuti?
Sì, perché sono persone che si rivolgono a me come a qualcuno che può dare loro qualcosa. I detenuti percepiscono il cappellano come una figura che non ha fini come quelli disciplinari o, comunque, istituzionali; sentono che il prete è un uomo verso cui poter andare senza timori e a cui raccontare problemi personali e familiari.

Il problema più difficile?
Quando ho incominciato a incontrare i detenuti, ho conosciuto persone che mi ponevano tante difficoltà e io non mi sentivo all'altezza di affrontare e gestire da interlocutore situazioni scottanti. Non si può mettere piede in un carcere in maniera pietistica, ed è fondamentale essere il più vicino possibile alla realtà dei reclusi. Mi ritrovo, così, ogni mattina ad avere incontri personali con i detenuti: senza barriere e senza filtri ascolto storie inimmaginabili. Il carcere mi ha portato a scoprire esperienze di vita di uno
spessore e una problematicità difficili da capire per chi, oltre il muro di cinta, svolge la propria vita tra famiglia, lavoro e tempo libero.

Anche il sovraffollamento rappresenta un grosso problema...
Sì, a maggio 2009 siamo arrivati ad una situazione alloggiativa inimmaginabile con una mobilità interna molto forte.

In che senso?
Tante persone entrano per poi essere trasferite altrove, in altri penitenziari. Tutto ciò crea diversi problemi, soprattutto quando seguiamo il singolo percorso riabilitativo di un recluso.

Qual è la media annua delle presenze in carcere?
Per i primi mesi del 2009 abbiamo una media di circa 300 persone. Se li confrontiamo con i dati del mese di gennaio 2007, quando i reclusi erano 159, possiamo dire che le presenze sono raddoppiate.

Ma il carcere di Treviso quanti detenuti può ospitare?
E' una struttura che, in base alle autorizzazioni rilasciate dal competente ministero, può ospitare centoventotto reclusi. E' chiaro che, man mano che i detenuti aumentano, lievitano anche i problemi, dovuti soprattutto agli spazi, sia per quanto riguarda le celle che le aree comuni. Soprattutto nella stagione calda gli ambienti dei reclusi diventano insopportabili per il mancato circolo di aria fresca. A causa del caldo soffocante, dell'aria impossibile da respirare per i cattivi odori, e degli ambienti chiusi e ristretti, ci sono giorni che ai detenuti sembra di vivere in un luogo infernale. Insomma, vivere nelle condizioni in cui sono costretti i detenuti, significa aggiungere una pena alla condanna inflitta dal
giudice.

Oltre a questi problemi di natura strutturale, ci sono altre problematiche?
A causa dei continui tagli alle spese per i detenuti capita che vengano a mancare carta igienica, detersivi e disinfettanti. Non sono previsti fondi per l'acquisto del vestiario da fornire ai carcerati e molti stranieri che non hanno né la possibilità economica, né possono contare sul sostegno di familiari o amici, ne sono completamente sprovvisti.

In questi casi interviene qualcuno?
Personalmente mi capita spesso di dover acquistare a mie spese carta igienica e
disinfettanti. Compero nuovi anche gli indumenti intimi, mentre per altri capi di
abbigliamento ricorro all'aiuto di privati e associazioni.

A causa della scarsa igiene si registrano epidemie e casi di malattie?Capita anche che qualcuno si ammali, ad esempio di scabbia; ciò può contagiare i compagni di cella.

In carcere arrivano anche i tossicodipendenti...
Sì, e anche se non sono in tanti, tuttavia la loro è una presenza costante. In carcere i tossici interrompono l'uso della droga e, grazie al personale sanitario, vengono seguiti col metadone. Hanno anche la possibilità di parlare con gli psicologi e sono comunque seguiti e curati dai Sert di competenza. Ho notato che chi finisce in una cella in compagnia di quei tossici che sono anche piccoli spacciatori, è sottoposto a un duro martellamento psicologico: questi ragazzi che spacciano non fanno altro, nel corso della loro lunga giornata, che parlare di come si procurano la droga, come la tagliano, dove la vendono e come la usano. E' come un disco che una volta terminata la musica, riprende dall'inizio: sembra che non ci sia verso per farlo smettere.

Lei conosce le tensioni e i problemi della Casa circondariale: è cambiato qualcosa inquesti ultimi anni?
Dal mio osservatorio ho modo di raccogliere le confidenze e i pentimenti di chi è finito in cella per scelta o per costrizione, e ho dovuto constatare che in questi ultimi tempi il carcere è cambiato e le tensioni all’interno sono cresciute. La trasformazione vera c’è stata con l’aumento della malavita straniera, delle etnie diverse che devono convivere qui dentro. [continua]

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