Passa ai contenuti principali

Carcere minorile. I buoni propositi

Le storie dei minori dell'Ipm di Treviso riportate nel volume "Liberi reclusi. Storie di minori detenuti" sono spesso infarcite di buoni propositi. Cosa pensare quando ci si trova di fronte a ragazzi detenuti per reati gravi che affermano di essersi pentiti delle loro azioni, che ora vogliono conseguire un titolo di studio così che, una volta usciti, possano trovarsi un lavoro, mettere su famiglia e nel tempo libero aiutare i poveri?
Parlando con operatori e volontari dell'Ipm, ho posto spesso l'accento sulla credibilità e sincerità dei minori detenuti. A volte - come mi ha riferito un operatore - i progetti non falliscono perché ci sono dei “brutti propositi”, ma perché non c'è nessuno che sostenga il cambiamento una volta che il ragazzo è stato dimesso dall'istituto. Laddove si è riusciti, però, a costruire una rete di intervento e di supporto al minore, i progetti hanno registrato una buona possibilità di riuscita. Non voluto di proposito approfondire questo aspetto perché, al di là del pentimento o meno di questi ragazzi, la giustizia deve andare sino in fondo e assicurare la certezza della pena.
Pentirsi del male arrecato ad altri è il minimo che un detenuto – minore o adulto che sia – deve fare. E il pentimento non dà diritto, a mio avviso, ad alcuno sconto sulla pena. I ragazzi che si incontrano tra i poliziotti che sorvegliano i corridoi, i cortili e gli altri locali dell'Ipm, possono apparire – e forse lo sono anche – degli sprovveduti o degli imbranati; intanto, però, tra di loro c'è chi ha rapinato anziani, chi ha violentato in gruppo una coetanea, chi ha spacciato e non manca chi ha ucciso.
Se non tutti i ragazzi sono stati sinceri, non tutti hanno mentito. Ma questo, come dicevo prima, non ha alcun rilievo. E' bello “sentire” che un ragazzo che per due anni ha spacciato droga, ora trascorre parte del suo tempo in branda a studiare il Corano, così come chi ha ucciso un padre di famiglia si dedica alla preghiera leggendo la Bibbia. Sono particolari che senz'altro possono aiutare l'uomo di fede, e in primo luogo il sacerdote, a cogliere il bene che c'è in ogni uomo e a nutrire la speranza che una società nuova e più giusta è possibile, ma chi deve appurare la verità di certi reati e applicare la legge non può farsi impressionare e condizionare nella sua difficile opera di giudice dalle personali esperienze religiose del reo. In altre parole, colloquiare con certi detenuti può anche essere costruttivo, a condizione, però, che non si dimentichi mai che la persona che si ha davanti ha commesso del male, e che per causa sua ci può essere, ad esempio, una ragazza che porta nell'anima e nel corpo i segni di una violenza indelebile, oppure un bimbo rimasto orfano.
 
 

Commenti

Post popolari in questo blog

Crimini di guerra e... non solo

Ricevo una nuova riflessione sull'intervista rilasciatami da don Pietro Zardo. A scriverla è l'avv. Maria Bortoletto, consigliere provinciale dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. La Seconda guerra mondiale ha lasciato uno strascico di crimini compiuti ai danni delle popolazioni civili come mai era accaduto nel passato. E’ anche vero però che, a differenza del passato, per la prima volta nella storia, i responsabili di questi crimini sono stati processati e condannati dai Tribunali speciali creati appositamente dai vincitori a guerra finita (vedi Norimberga, Tokio, ecc.). Un tempo era la Storia e non gli uomini a giudicare i vinti e i vincitori. Fu dunque un atto di giustizia? Certamente sì, perché i crimini compiuti, per esempio dai tedeschi in Europa e dai giapponesi in Asia, meritavano una giusta punizione. Ma non si può tuttavia non sottolineare che la “giustizia” applicata da quei Tribunali speciali non fu del tutto imparziale. Erano infatti i vincito

Don Marco Di Benedetto: i volontari sono una risorsa per le carceri

In questo post propongo parte dell'intervista rilasciatami da don Marco Di Benedetto - sacerdote trevigiano e volontario nel carcere di Rebibbia a Roma -, riguardante il ruolo dei volontari nelle carceri. Il testo dell'intervista integrale è contenuto nella terza edizione del libro "Liberi reclusi. Storie di minori detenuti", pubblicato dalle Edizioni del noce. Intervenendo ad un convegno sulla realtà carceraria 1 il giudice di sorveglianza al tribunale di Padova Linda Arata affermò che - per arginare le violenze che si registrano in alcuni penitenziari da parte di agenti nei confronti dei detenuti - è necessario promuovere anche il volontariato: in un carcere, infatti, i volontari non solo hanno il compito di seguire un recluso lungo un preciso percorso di crescita umana e di comprensione del male arrecato alle sue vittime, ma anche di rendere trasparenti le mura della casa circondariale, perché possono testimoniare all'esterno quanto lì avviene. Ma volo

Don Pietro Zardo a Tombolo

TOMBOLO - Venerdì 14 maggio la comunità parrocchiale ha accolto don Pietro Zardo che ha parlato della realtà del carcere di Treviso e ha presentato il libro " Condannati a vivere ". Dopo il saluto del parroco don Bruno Cavarzan ed una mia breve introduzione al tema della detenzione, don Pietro ha parlato davanti a più di duecento persone, molte delle quali lo hanno conosciuto e stimato nel corso del suo ministero di cappellano a Tombolo (1986-1996). Numerosi gli interventi e le riflessioni delle persone presenti in chiesa e non è mancata la testimonianza di una donna che ha avuto il marito in carcere: un'esperienza molto dolorosa sotto tutti gli aspetti. Interessante anche l'intervento di una giovane che svolge attività di volontariato presso l'Istituto penale dei minorenni di Treviso. La serata si è poi conclusa con un momento conviviale.