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Liberi reclusi, aggiornato il capitolo conclusivo

Pochi giorni fa l'editore Armando Fiscon mi ha consegnato le copie della ristampa del libro "Liberi reclusi". Rispetto alla prima edizione, le nuove copie riportano il capitolo conclusivo ampliato con delle nuove riflessioni. Il libro è distribuito in tutta Italia da Il Messaggero. Ecco il testo.


Conclusioni



Chi commette un reato non pensa che finirà dietro le sbarre. Non si pone affatto questo problema. Nel momento in cui uccide, stupra o spaccia droga, il fuorilegge non considera la possibilità di trascorrere degli anni rinchiuso in una cella.
I minori che ho intervistato, hanno compreso di aver infranto le regole della convivenza sociale solo quando hanno sentito scattare ai propri polsi le manette. Solo qualcuno, che ha avuto diversi parenti e amici in galera, ha pensato che prima o poi sarebbe toccato anche a lui “familiarizzare” con altri detenuti e secondini; cosa che poi è avvenuta. Eppure si tratta di giovani che hanno anche commesso gravi violenze.
Tra le storie che ho riportato in questo volume c'è anche quella di un ragazzo che ha commesso un omicidio: è una storia dolorosa, e la vittima che porterà sempre dentro di sé questa violenza subita, è il figlio dell'uomo assassinato. Io credo che lo Stato e tutte le espressioni della cosiddetta società civile debbano avere una predilezione particolare per i familiari delle vittime, che, purtroppo, in molti casi sono abbandonati a se stessi.
E' importante, altresì, fare di tutto affinché anche chi si è macchiato di un terribile omicidio possa essere recuperato, così da poter rientrare a testa alta nella società, tanto più se è un minore.
Una società, infatti, può definirsi veramente civile se nessuna delle sue “pietre vive” viene scartata. Questo vale per tutte quelle persone che vengono considerate improduttive, disabili, o anche non competitive sul posto di lavoro; ma vale anche per gli assassini. Ecco la vera sfida che attende ogni società civile: capovolgere l'attuale corsa che porta all'esclusione di tutti coloro che sono considerati un peso, prendendosi cura di tutti i suoi membri. Una comunità vera non è quella che si gloria del reddito pro capite che certi hanno raggiunto a discapito di una buona fetta della società. E' piuttosto quella in cui tutte le persone vengono valorizzate e messe in condizione di portare il proprio mattone per migliorare la qualità della vita di tutti.
Pura utopia?
Se nel pensare comune e anche secondo il pensiero pedagogico l'autoritarismo e il castigo fine a se stesso vengono reputati strumenti di correzione privi di effetti positivi, perché poi quando il discorso si allarga alla società le cose dovrebbero cambiare?
Noi abbiamo bisogno di poliziotti, carabinieri e magistrati onesti e competenti, ma nel nostro sistema sociale occorrono anche operatori che si impegnino a bonificare quei tessuti sociali infettati dal virus della delinquenza: assistenti sociali e operatori di strada capaci di individuare le nuove forme di povertà così da prevenire il proliferare di comportamenti devianti.
Pura utopia? Mi sembra già di sentire il commento di tanti che, figli onesti e laboriosi della nostra società, mal sopportano di veder offrire un posto di lavoro all'ex detenuto quando essi stessi hanno perso il loro e magari hanno pure un bel titolo di studio...
Mettere in condizione l'ex carcerato di comprendere l'errore commesso e poi accompagnarlo ad intraprendere una strada onesta affinché anche la sua vita acquisti un valore, sarà pure utopia, ma mi sembra l'unico modo per sanare l'intera società.
Una detenzione priva di spunti di riflessione positivi e l'abbandono dopo la scarcerazione, al contrario, sono humus per il proliferare della delinquenza.
L'omicida, pur avendo commesso una terribile violenza, non solo deve essere posto in condizione di comprendere il proprio sbaglio, ma soprattutto dovrebbe avere il dovere di risarcire i familiari della vittima.
Si potrebbe dire che il debito di un assassino sia inestinguibile in questa vita terrena. E tuttavia, piuttosto che puntare sull'inasprimento della pena detentiva per chi ha commesso questo tipo di reato, perché non obbligarlo, una volta scontata la condanna in carcere, ad eseguire anche un lavoro umile affinché una parte del proprio stipendio venga utilizzata per risarcire i familiari delle vittime?
Inoltre, come accennavo prima, soprattutto un minore omicida deve essere recuperato alla società.
Se da un lato bisogna incoraggiare le coppie di coniugi a desiderare e ad accogliere nuovi figli, dall'altro bisogna adoperarsi per rimettere in carreggiata quei giovani che hanno anche commesso delitti sconvolgenti. Per nessun ragazzo possiamo immaginare un futuro da trascorrere dietro le sbarre oppure fatto di privazioni, solitudini e reati sempre più gravi, ma per tutti dobbiamo impegnarci affinché possano costruire delle significative relazioni affettive e sociali, e inseriti in contesti dove il lavoro viene vissuto come un valore capace di dare soddisfazioni e un senso alla propria esistenza.
Al di là, comunque, delle ragioni qui esposte, sono convinto che tutti siamo chiamati a prestare attenzione a quanto avviene negli istituti penali dei minorenni e nelle carceri, perché non solo, come avverte Pietro Zardo, <>1, ma anche perché troppe morti sospette alimentano dubbi e perplessità sull'operato e sul codice etico del personale penitenziario e delle forze dell'ordine2: chi commette un reato, anche terribile, non perde la propria dignità e lo Stato ha il diritto e il dovere di garantire l'incolumità fisica e psichica a tutti i reclusi nelle patrie galere.
Per far fronte all'emergenza giustizia, inoltre, occorre soprattutto fare prevenzione sul territorio, cosa che si dovrebbe tradurre intervenendo, in modo particolare, in ambito familiare. A parte le dovute eccezioni è stato notato, infatti, che le famiglie monoreddito offrono una maggiore protezione nei confronti dei minori. Quando, per vari motivi, un solo genitore deve invece farsi carico del bilancio familiare e dell'educazione di un figlio, può allora succedere che, in assenza del controllo dell'adulto, il ragazzo venga coinvolto in attività delinquenziali. Succede così che, a seguito di piccoli furti, magari per pochi euro, un ragazzo finisca dietro le sbarre per tre o addirittura otto mesi. Una detenzione che non appare commisurata ai reati commessi, ma scaturisce dalla valutazione del giudice, secondo cui il ragazzo si trova nella condizione di poter di nuovo infrangere la legge, in quanto non ha un adulto che lo possa seguire.
In sostanza, pare che abbiamo minori in cella perché colpevoli di non avere due genitori che si occupino di loro, di avere una famiglia disgregata. In questo contesto, come non notare che in certe province, come quella di Treviso, man mano che aumenta il numero di separazioni e divorzi, si abbassa l'età degli adolescenti dediti al consumo di alcool e stupefacenti? Eppure la famiglia dovrebbe godere del sostegno di valide politiche. Invece, in tanti casi, sembra che le amministrazioni comunali si preoccupino soltanto di sostenere le attività produttive e commerciali locali, investendo ingenti risorse finanziarie in opere pubbliche. Si prediligono le strutture alle persone.
Le conseguenze negative di un certo tipo di politica sono sotto gli occhi di tutti: la società “invecchia” e il numero degli anziani supera i nuovi nati. Quando, poi, all'interno di nuclei familiari già ristretti, si verificano lutti che riguardano proprio i giovani, la situazione diventa ancora più drammatica.
Un ragazzo detenuto, allora, non è più “il male” della nostra società, ma ne rappresenta piuttosto la sconfitta.
Sacerdoti, volontari, insegnanti, psicologi, esperti in vari campi: abbiamo ascoltato le voci di tante persone che hanno scelto di condividere, per diverse ragioni, la vita dei ragazzi detenuti in istituto. C'è chi trascorre più e chi meno tempo con loro, chi lo fa per volontà personale e chi per professione, ma in tutti c'è uno stesso anelito: quello a promuovere nei ragazzi la riappropriazione della propria vita nel senso più completo del termine. Perché, un giorno non più reclusi, possano essere finalmente liberi da ciò che ha attanagliato la loro esistenza. Liberi responsabili.



________________
1 Pietro Zardo, intervistato da Carlo Silvano, “Condannati a vivere. La quotidianità dei detenuti del carcere di Treviso raccontata dal suo cappellano”, Ogm editore 2009, p. 22.
2 Cfr. Samanta Di Persio, “La pena di morte italiana. Violenze e crimini senza colpevoli nel buio delle carceri”, ed. Rizzoli 2011.

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