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L’ossimoro creativo di Carlo Silvano, recensione di Antonella Bianchi e Claudio Spina

 

 Si fa un gran parlare della questione carceraria pur avendo approssimative conoscenze della vita quotidiana in carcere e risultano pressoché sconosciute quelle riferite ai ragazzi minorenni.

Il tema del carcere nelle menti dei più è rimosso, già l’idea spaventa ed è percepito come sofferenza unitamente al senso di vergogna.

Con il metodo dell’inchiesta Carlo Silvano presenta la condizione dei giovani ospitati dall’Istituto penale per i minorenni del Triveneto, a Treviso e, con garbo, riordina i timori.

Il titolo del libro, un ossimoro composto da due parole, è ermetico: liberi - esprime il desiderio, l’aspirazione e l’altra, reclusi – la sintesi della condizione di vita.

Sobrio nel linguaggio, le pagine non sono bagnate da lacrime o risentimenti; dà risalto, invece, ai vari attori: gestori, operatori, volontari, cappellano, sacerdoti, medici oltre ovviamente ai minori in stato detentivo. Non manca il rigore scientifico quando presenta drammi, speranze, dinamiche relazionali interne all’Istituto ed esterne ovvero tra il giovane e la sua famiglia.

Anche l’aspetto religioso è affrontato con equilibrio.

Già con la Prefazione, affidata all'on. Simonetta Rubinato, deputata a Montecitorio, la questione carceraria si presenta complessa con i suoi nodi sociali, legislativi e politici per il vasto campo interpretativo del concetto di pena e dei relativi programmi di recupero previsti e messi in campo con risultati purtroppo non sempre soddisfacenti anche «perché non c’è nessuno che sostenga il cambiamento».

Alfonso Paggiarino, già direttore dell’Istituto, precisa: «È importante che nel linguaggio comune il nostro Istituto non venga indicato come “carcere minorile”, ma con l’espressione “Istituto penale per i minorenni”».

Dei direttori degli istituti penitenziari si parla per eccezioni eppure sono proprio loro che possono illuminare l’ambiente reietto1.

Dello stesso avviso è il cappellano dell’Ipm, Giorgio Saccon e aggiunge: «La giustizia minorile dovrebbe pensare e organizzare strutture e modalità tanto diverse da quelle attuali perché i ragazzi possano arrivare alla comprensione del reato, al loro recupero e alla riabilitazione, … e alla riconciliazione tra lui, … e chi ha subito il reato».

«Ecco, allora che diventa importante far conoscere la realtà dell’Ipm all’opinione pubblica», come osserva il sociologo Carlo Silvano, e tutto senza veli e senza sconti.

All’Ipm i giovani sono italiani, altri sono il prodotto della immigrazione, stranieri non accompagnati e stranieri di prima e seconda generazione aventi la famiglia in Italia.

La loro storia ha un comune denominatore: la sterile risposta sociale e familiare. Lì il “male” s’insinua e trova terreno fertile per albergare.

Si comprende come il male derivi non solo dai cattivi maestri, dagli urlatori mediatici ma anche dall’uso inadatto dalle nuove tecnologie, in particolare dal telefonino, che consentono di promuovere la propria visibilità sui social nel dilagante disordine sessuale fino ai confini della prostituzione e che coinvolge il ruolo della donna e le reiterate violenze subite.

Il fenomeno non è nuovo. Oggi è difficilmente controllabile e crescono i rischi di ritornare al fenomeno delle schiave bianche2 nell’ambito telematico.

Tra i giovani reclusi, la percezione dei vari reati ha una diversa tolleranza: «Nell’ambiente dell’Ipm non sono ben visti i cosiddetti “tossici” e coloro che hanno reati a carattere sessuale; vengono invece esaltati i reati di “furto” e “rapina” e direi forse che è anche più compreso l’omicidio», dice ancora don Giorgio.

Nella narrazione è considerata anche l’impulsività come generatrice del crimine ancor più se sotto l’effetto di droghe o alcol. In istituto cresce l’autolesionismo ma non manca la fede e la speranza di poter condurre, a fine pena, una vita normale dunque si compie una riflessione su se stesso.

In queste dinamiche il lettore resta coinvolto e Silvano assegna a lui il ruolo di protagonista: «É anche vero, però, che a volte basta un gesto semplice per lasciare nell’animo degli adolescenti segni che si porteranno dentro per tutta la vita». Si comprende come un gesto d’amore o di legalità genera sempre beneficio già nell’ambito della famiglia. Troppi giovani sono stati «ingannati da persone adulte».

Tuttavia «colloquiare con certi detenuti – dice Silvano - può anche essere costruttivo, a condizione, però che non si dimentichi mai che la persona che si ha davanti ha commesso del male, e che per causa sua ci può essere, ad esempio, una ragazza che porta nell’anima e nel corpo i segni di una violenza indelebile, oppure un bimbo rimasto orfano».

Più complessa è la dinamica di gruppo degli adolescenti: «Infatti, la soggettività individuale è molto diversa in un gruppo da come si esprime fuori da esso, tanto che la responsabilità individuale solitamente tende a sfumare», dice Luisa Bonaveno, psicologa.

Un capitolo delicato è quello dedicato ai volontari in carcere, con la consapevolezza che «non è un servizio particolarmente ambito» per cui è di primaria urgenza formare i volontari: «chiunque debba esercitare un potere di qualsiasi natura con persone più deboli, la questione della selezione e della formazione permanente va posta seriamente», dice Marco Di Benedetto.

La lettura del libro aiuta a conoscere l’immigrato e quello che delinque.

Non mancano proposte di miglioramento definite utopie dall’autore, che le sottolinea inserendo la poesia “Giovane prigioniero” di Adriana Michielin.

Il libro di Carlo Silvano ha il merito di aiutare a superare le barriere tra il recluso e la società. Sta qui il segreto da cui deriva il riscontro tra i lettori. Ecco un primo valido motivo per leggere il suo coraggioso libro, Liberi e reclusi.

Il volume si può reperire sia ordinandolo nelle librerie tradizionali che in quelle in rete oppure cliccando sul link  Liberi reclusi .

Milano, 27 ottobre 2022

Antonella Bianchi e Claudio Spina

1 Lo aveva capito il Beato Barolo quando nel 1887 incontrò il cav. Giovanni Paradisi, direttore del carcere di Napoli, che gli descrisse la dura realtà carceraria e da cui si avviò a Pompei la straordinaria opera a favore dei Figli dei carcerati. L’episodio risale all’ottobre del 1887 quando Longo si recò nel carcere di Napoli per incontrare un detenuto, riconciliato con Dio anche grazie alla lettura del periodico “Il Rosario e la Nuova Pompei” da lui fondato ed inviato gratuitamente in moltissime case di pena d’Italia e del mondo. Scrive Longo, «celebrate che furono a Valle di Pompei le feste solennissime di quell'ottobre volli andare a fare la promessa visita ad Alfonso ... nelle Carceri di S. Francesco in Napoli. [...] e primariamente ci recammo nel gabinetto del Direttore per ottenere il permesso. Era allora Direttore di quel Carcere un uomo, il cui nome è scritto nel mio cuore a caratteri indelebili, come spero sia scritto a caratteri di oro nel Libro della vita: Il Cav. Giovanni Paradisi» (Bartolo Longo, Vie meravigliose della Provvidenza, pp. 91-95).

Il beato Bartolo Longo è stato uno degli uomini alti del suo tempo. Non a caso fu candidato al premio Nobel. Nato Latiano (BR) nel 1841, avvocato, fondò in Valle di Pompei il Santuario, opere di carità, Orfanotrofio, Congregazione delle Suore Domenicane Figlie del Santo Rosario, Istituto per i Figli dei carcerati e promosse quello per le Figlie dei carcerati e la nuova città di Pompei. Lo affiancò Marianna Farnararo, poi sua moglie. Morì a Pompei nel 1926. Cf. Antonella Bianchi - Claudio Spina, Bartolo Longo. Un manager tra organizzazione e santità, Santuario di Pompei 2007. Antonio Illibato, Bartolo Longo. Un cristiano tra Otto e Novecento, voll. 3. Pontificio Santuario di Pompei 1996, 1999, 2002.

2 Bartolo Longo ricorda che Le Figlie dei Carcerati sono un’innocenza in pericolo. «Rimaste senza padre o madre, che sono in carcere, cadono negli artigli di infami sfruttatori, che ne fanno turpe mercato a scopo di lucro, come una merce umana - vera tratta di schiave bianche! … la sera, se non portano al Cristiano (Ricottaro da ricatto) il frutto della turpe giornata di lavoro, sono martoriate e battute con apposito scudiscio. A poco a poco perdono prima il pudore, poi ogni buona reazione di coscienza, quindi il decoro umano … fino a vivere come bestie».




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