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Cosa posso fare io?


Qui di seguito propongo la testimonianza che don Franco Marton scrisse anni fa e che ebbi modo di inserire nel libro "Condannati a vivere" (pp. 49-51).


Cosa posso fare io?di don Franco Marton


Dalla bella intervista a don Pietro Zardo prendo lo spunto per una domanda provocatoria: di fronte a fatti che contraddicono il Vangelo, i cristiani devono parlare o tacere? Scrivo queste riflessioni nei giorni d'agosto del 2009, in cui le carceri scoppiano per il sovraffollamento e i barconi di immigrati continuano a colare a picco. Sugli immigrati si sono sentite parole di denuncia sulla disumanità e ostilità delle nostre leggi. da parte di vescovi e, meno nette, da parte di comunità cristiane. ma sulle carceri la comunità cristiana nel suo insieme è silenziosa, anche se il problema si fa drammatico. Perché? C'è una resistenza profonda è sorda dei cristiani a farsi carico dei carcerati. Viene da lontano. Nei caldi anni Settanta frequentavo il carcere minorile di Santa Bona, perché in quel quartiere stavamo costruendo una parrocchia. Un metodo frequente di protesta dei detenuti era di salire sul tetto del carcere con degli striscioni e restarci giorni, anche d'inverno. La gente passava, li vedeva e... s’indignava contro di loro! Tanto che i ragazzini del catechismo, invitati da noi a raccogliere le espressioni che circolavano in casa sui carcerati, ci riportavano racconti raccapriccianti. Informata la parrocchia, nascevano tensioni e conflitti con l'accusa ai preti di essere, come i comunisti, dalla parte dei delinquenti. Il Vangelo faticava a passare, come oggi. Perché? I cristiani continuano ad assorbire, con triste passività, i luoghi comuni che li circondano: “hanno sbagliato, che paghino”, “in carcere stanno come in un albergo”, “i giudici sono troppo buoni…”. A guidare la disinformazione sono la televisione e la maggior parte dei giornali. A darle successo è la diffusa “acriticità”, che non fa onore a chi secondo il Vangelo dovrebbe essere il “figlio della luce” e “astuto come serpente”.
All'interno di questa deriva culturale i cristiani non sembrano vedere più ciò che è essenziale al Vangelo.  Si accontentano spesso di stanchi riti da cui viene accuratamente tenuta fuori la storia è la vita.  davanti ai mille uomini “mezzo morti” che sbarrano loro la strada (carcerati, ma anche stranieri, affamati…) preferiscono passare oltre come gli uomini del culto della parabola del Samaritano: non hanno più il coraggio di fermarsi e prendersi sulle spalle i feriti. Ma “fare come ha fatto il Samaritano” per Gesù è decisivo se si vuole avere la vita, anche quella definitiva. “Ero carcerato e siete venuti a visitarmi” è parola vincolante di Gesù per entrare nel suo regno. Non è facoltativa. Rifiutare di “visitare” i carcerati equivale a venir allontanati da Lui per sempre. L'obiezione più corrente è: ma cosa posso fare io? Non si vede, ad esempio, l'importanza del “fare opinione pubblica” accogliente verso il carcerato, del far circolare idee di giustizia e di benevolenza, del far credito all'impegno politico, del costruire una cultura rispettosa della dignità di ogni uomo e solidale con i problemi del carcere…  E questo lo possiamo fare tutti: dai genitori ai politici.
I responsabili delle comunità cristiane hanno poi un dovere: far riscoprire alle loro comunità l'urgenza della “profezia”, del parlare in nome del Vangelo, aiutandole anche a superare i conflitti che su questo tema nascono inevitabilmente.  La paura di dividere la comunità spesso fa scegliere colpevolmente il silenzio.  Ma forse c'è una radice nascosta di questo imbarazzo cristiano davanti ai carcerati. Abbiamo fatta nostra un'idea di “merito” che è anti evangelica. Crediamo che le nostre “opere buone” siano frutto esclusivo della nostra bontà e devono venir ricompensate dal Signore e anche dalla società, mentre le “opere cattive” dei carcerati sono frutto della loro cattiveria personale e devono essere punite dal Signore e dalla società. I meriti vanno premiati, le colpe punite.
 So bene che il discorso è complesso, ma non dalla parte del Vangelo: col carcerato, anche se colpevole, il Signore si è identificato. E la giustizia senza misericordia, non è la giustizia di Dio.  E non può essere la giustizia dei suoi figli, i quali, se vogliono incontrare il Signore, dovranno necessariamente, in un modo o in un altro, passare anche attraverso il carcerato portatore di una sua misteriosa ma reale presenza.




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