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Il libro Condannati a vivere di don Pietro Zardo, è stato presentato venerdì 19 febbraio nella sala parrocchiale dei Santi Giorgio e Cassiano a Quinto di Treviso dal parroco don Artemio Favaro e dal direttore del carcere minorile di Treviso Alfonso Paggiarino.



[il direttore Alfonso Paggiarino]

Qui di seguito propongo una riflessione di don Artemio e inserita nel volume ("E' pur sempre un uomo chi mi sta di fronte", pp. 67-71).



[il parroco don Artemio Favaro]

Conosco don Piero da una vita. Fin da quando, ai tempi del Ginnasio, prima del Liceo, iniziammo a scoprire, gustare e “macinare” quelle idee e quelle intuizioni che nei lontani anni Settanta, piano piano, prendevano ed affascinavano i giovani di mezza Europa. Insieme abbiamo condiviso esperienze e passaggi intensi di vita fino all'evento più importante per entrambi: quello di dedicarci completamente al servizio del Cristo e del suo Vangelo.



[don Pietro Zardo]

Risale anche a quegli anni e, in particolare, agli eventi vissuti e alle persone incontrate, la sensibilità cresciuta e maturata in noi. Fu un periodo che abbiamo gustato a fondo perché ci regalava soddisfazioni, ci apriva a mondi sconosciuti e a terreni inesplorati, spalancava dinanzi a noi scenari accattivanti, suscitava interrogativi a catena e, soprattutto, stuzzicava quella sete di conoscere e di sapere che ci trasformava facilmente in viandanti appassionati.
Sacco a pelo e autostop…: ci si sentiva in brevi attimi cittadini del mondo, persone libere e svincolate da orpelli e pregiudizi culturali, giovani aperti al futuro, sognatori di un domani gravido di fraternità, di accoglienza, di tolleranza, di pace... Siamo stati segnati da eventi e figure forti: quei leader che oggi sono scomparsi per lasciare il posto a sprazzi di sconfortante mediocrità, a personaggi di basso o inesistente profilo, a una cultura minuscola e provinciale. Peccato!
Mi ritengo davvero fortunato per essere stato aiutato a conoscere e fare miei per sempre i valori fondanti l'interiorità di una persona e di un'intera società. I vari passaggi di questi anni ci hanno arricchito di sempre nuove esperienze e hanno consolidato in noi la concreta e reale capacità di mettere sempre l'uomo e la persona al primo posto, la ricerca di attenzioni e di scelte che siano congruenti con quanto si dice a parole, la volontà quotidiana di saldare il Vangelo alla storia...



[il pubblico presente in sala]

Ora si capisce perché don Piero sia un appassionato dell'uomo, uno scrutatore e un ricercatore, attento e puntiglioso dell'animo umano per cogliere in esso tutte quelle sfumature, quegli atteggiamenti interiori, quei risvolti non sempre evidenti che poi lo aiutano e lo guidano ad esprimere le scelte più attente, delicate e convinte nei confronti soprattutto di chi è ferito o si sente penalizzato dalla vita. Sono certo che si radica qui il suo impegno e il suo servizio a fianco di chi sta vivendo l'esperienza drammatica e fallimentare del carcere.
Tanto è pacato, lineare e chiaro nel suo modo di essere e di esprimersi quanto sa proporsi in modo deciso e risoluto nel momento in cui riscontra attorno a sé o dinanzi a sé atteggiamenti che squalificano non solo i valori del Vangelo, ma anche quelli che sono alla base del minimo rispetto dell'altro.
A differenza di quanto accade spesso all’interno delle istituzioni, don Piero sa “stare dentro” non come funzionario o uomo di apparato, ma per quello che è: un consacrato che non si dimentica di essere uomo; un consacrato che non si sottrae al conflitto né lo delega, ma lo affronta con efficacia e discrezione; un consacrato che non cerca mai di dimenticare che colui che sta di fronte è certamente un carcerato, un ergastolano, un poco di buono, un parassita sociale, una vergogna vivente... ma pur sempre un uomo!




Leggendo l’intervista ho colto ancora una volta questo suo modo di essere, questo suo stile esistenziale, questo riuscire a collocarsi dentro la situazione che è chiamato a servire con realismo e con quella capacità di scrutare in fondo alle situazioni per discernere di volta in volta atteggiamenti, orientamenti e scelte che siano soprattutto a beneficio della persona. È inoltre un prete che sa essere chiaro. Rispettoso dell'altro, dell'istituzione, ma mai accondiscendente: capace di mirare dritto al problema in questione, ma sempre con la grande consapevolezza che dietro la situazione problematica ci stanno delle persone con le loro fatiche, i loro fallimenti, i loro drammi...



In tutta l'intervista traspare ancora lo sguardo di insieme al quale costantemente don Piero richiama il suo lettore: è davvero provocatorio lo sforzo di sottolineare il fatto che la realtà carceraria non è avulsa dall’insieme del vivere civile, non può essere scorporata, ghettizzata: è quello che rischia di succedere oggi, purtroppo, a motivo di una cultura che non sopporta più chi trasgredisce, né ammette possibilità di recupero, e di fronte a chi sbaglia si fa sempre più retorica, intransigente, fondamentalista. Soprattutto se a sbagliare sono stranieri, giovani e poveracci, gente di poco conto, etc…
Per chi è forte e ha potere, è diverso. A colui che ha una solida immagine sociale o un grosso peso a livello finanziario, economico e politico, si è disposti a perdonare tutto o quasi. “Se tu sei uno che conta ti capisco, ti perdono, ho pazienza, posso sempre aver bisogno di te... e poi comprendendo e perdonandoti chissà... potrai agevolarmi in una qualche maniera, potrai regalarmi qualche piccolo favore in contraccambio…” . Due pesi e due misure: purtroppo.
Siamo dentro a questo meccanismo culturale pressappochista, tendenzioso e superficiale. C'è molta strada da fare: occorre trovare il coraggio di ripensare un codice etico che aiuti tutti a ritrovare le fila di una responsabilità perduta o comodamente delegata.
Se il carcere deve essere anche uno “spazio educativo”, è importante che divenga espressione di una comunità civile che è pronta ad investire, nel modo che venisse richiesto, per far sì che una tale struttura sia messa in grado di svolgere al meglio quest'opera di “recupero e riabilitazione”. Si tratta di ripensare e ricreare con coraggio e creatività quei canali (non solo tecnico-istituzionali) che permettono ad ogni cittadino di guardare al carcere non solo come il “ghetto giusto e meritato per bastardi assassini”, ma soprattutto come strumento che una collettività ha scelto di darsi per arginare ed eventualmente riabilitare le frange più difficili, più deboli ed emarginate.




E’ urgente inoltre ricreare una cultura che aiuti a riproporre quei valori forti che hanno il nome di: rispetto dell'altro, accoglienza della sua diversità, stima per la sua originalità e i suoi vissuti, valorizzazione della sua cultura, capacità di riconciliazione, forza di perdono... senza dei quali una società finirebbe per vivere solo di competitività e contrapposizione.
Non si tratta di semplificare la complessità del vivere civile o di cedere a buonismi fuori luogo e pietismi controproducenti: non ci credo, nessuno ci crede, nessuno lo vorrebbe... Occorre far sì che una società sappia esprimere quegli atteggiamenti adulti significativi che aiutano a mettersi dinanzi a chi ha sbagliato con l'articolo di legge, la giusta punizione, ma anche con una porzione di... cuore.
Senza che nessuno si sottragga: nemmeno le forze più vive, sensibili e vitali della comunità cristiana. La posta in gioco è consistente, perché pare divenga sempre più urgente la necessità di uno sforzo educativo che sappia sprigionare dall'animo dei più giovani (e non solo) le migliori risorse e le energie più significative.
Un complesso sociale che si limita ad arginare le tensioni, a controllare e contenere la vitalità delle persone regalando loro “pane e giochi/divertimento”; che si dedica a monitorare il territorio suscitando sempre nuove contrapposizioni tra le persone e seminando quindi atteggiamenti di sfiducia e di rifiuto; che mortifica o penalizza le figure più fragili e socialmente inconsistenti; che sceglie di non investire sulle forze giovani e sul futuro... rischia di scivolare in una china carica di luoghi comuni e di chiusure pericolose.
La “scommessa educativa” chiede il coraggio di guardare oltre per spalancare la porta a quei valori che irrobustiscono una società e la rendono veramente capace di farsi carico anche di chi è andato fuori strada
...

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