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E' giusto che l'aborto sia legale?

Ho conosciuto l'avv. Giovanni Formicola nei primi anni Novanta quando lo contattai per un'intervista sul reato dell'usura. Da allora è nata una solida amicizia, e ho potuto conoscere meglio Giovanni in occasione di numerosi incontri e conferenze culturali. In seguito - all'inizio del 1999 - ho lasciato Napoli per trasferirmi a Treviso, ma l'amicizia è rimasta intatta. Anzi, ho potuto contare su Giovanni in diverse occasioni come, ad esempio, quando ho pubblicato un volume sulla massoneria trevigiana e Giovanni, sempre disponibile, mi ha scritto e firmato la postfazione. Recentemente gli ho sottoposto l'intervista a don Pietro Zardo e mi ha scritto la riflessione che segue.

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Portici - Qualche tempo fa, una di quelle conversazioni da treno, che non si sa mai come cominciano e che proseguono più o meno oziose fino al termine del viaggio, fu per me singolarmente illuminante allorché una signora disse di essersi accorta che, per la figlia adolescente, l’aborto – per la cui «legalizzazione» lei da ragazza si era tanto battuta – era una cosa «normale», e proprio perché «legale». La cosa – diceva ancora – non le piaceva, perché, pur ritenendo giusto che le donne avessero la possibilità di abortire «legalmente», non poteva accettare che non avvertissero la gravità di una simile scelta. È abbastanza tipico: si rifiutano gli effetti, ma non le cause. Infatti, la signora continuava a difendere la «legalizzazione» dell’aborto, non volendo riconoscere il nesso causale che aveva con quanto lamentava. E del resto, soprattutto in tempi in cui ogni riferimento alla legalità è persino enfatico, come si può non considerare l’aborto – che viene praticato alla luce del sole, in strutture sanitarie pubbliche e totalmente assistito, tanto che non si paga per esso neppure un piccolo ticket – in fondo «normale»?
Se poi per interrompere la gravidanza basta una pillola (o due), dov’è il problema? Certo, e lo so bene, per tante donne di fatto l’aborto è tutt’altro che indifferente, è una tragedia che le segna per la vita. Ma concettualmente, logicamente è così: se si può fare, se lo Stato lo paga integralmente, e se addirittura basta una pillola, allora che cosa c’è di male? Perché no?
Perché – mi viene di rispondere –, come si deve ammettere, chiunque, se non avesse abortito, oggi avrebbe un altro figlio. E non ce l’ha non perché l’abbia dato in affido ad altri, ma perché gli ha impedito di nascere, cioè di continuare a vivere. È crudo, ma è vero: l’ha ucciso. Nessuna donna incinta chiama diversamente dal «mio bambino» quella vita che nella sua prima fase si svolge e si sviluppa nel grembo materno. E nessuno di noi può avere una coscienza di sé che non individui il proprio inizio con il concepimento: se nostra madre ci avesse abortito noi – non una cosa, non altro – saremmo stati soppressi. La nostra esistenza sarebbe stata interrotta in modo violento. Noi saremmo morti precocemente e di morte violenta. Noi saremmo stati uccisi.
Ed allora dobbiamo continuare a porci la domanda decisiva, che non può cessare di interpellare le nostre coscienze: è giusto che l’aborto sia «legale»?
Si dirà che nessuno può essere costretto ad essere madre. Ma si è già madre con il concepimento, non con la nascita. Tutt’al più si può accettare che nessuno sia costretto alla maternità sociale, e quindi lasciare la libertà di affidare a terzi il proprio bambino dopo la nascita.
Si dirà che nessuno può essere costretto a partorire. Ma il parto non è che l’esito proprio del processo fisiologico della gravidanza: non è un atto della volontà umana (rispetto al quale si può parlare di costrizione o non), ma un fatto naturale. Quando interviene la volontà, vuol dire che siamo già nel campo del potere dispotico della madre nei confronti del figlio che porta in grembo (anche se spesso, o quasi sempre, il vero despota è il padre), ed allora «non mi puoi costringere a partorire» dà un suono «buono» a «ho il diritto di abortire».
Di qui non si esce: o l’aborto è un diritto, o è un delitto. Il resto è sofisma. E se è un diritto, è il diritto di uccidere un essere umano sommamente innocente e sommamente indifeso. Un essere umano, certo. Perché, al di là di quello che ormai dimostrano la genetica e l’ecografo, nessuno può pensare a sé nel grembo di sua madre senza dire «io». E «io» ero, sono e sarò un essere umano, quale che siano le mie dimensioni, la mia capacità intellettiva, il livello della mia coscienza, la mia razza, il mio statuto sociale, etc. E un essere umano innocente è in quanto tale titolare del diritto inalienabile alla vita, per cui non dovrebbe mai essere «legale» togliergliela, impedirgli di continuare a vivere.
Dico «dovrebbe» perché so bene che se la «legalità» dell’aborto corrompe nelle coscienze la consapevolezza della sua vera natura – uccisione di un essere umano, di una persona, magari piccola e incosciente, ma certamente innocente e inerme –, è anche vero che la distanza tra il diritto come dovrebbe essere – cioè il diritto naturale – e com’è – cioè il diritto positivo – può esser colmata solo da una rinnovata coscienza, da un’autentica contro-rivoluzione culturale. Solo quando sarà diffusa e maggioritaria la convinzione che abortire è uccidere – e non è un problema di fede, ma di ragione e di ecografo –, si potrà pensare ad una diversa normativa sull’aborto. Allo stesso modo, per fare un esempio, solo quando i maschietti capiranno che né il sesso, né le donne sono merce da acquistare, si potrà arginare la piaga della prostituzione e del mercato di carne umana, fino a punire legalmente chi ancora vi ricorra.
Sembra, tuttavia – e concludo –, che il cane si morda la coda. Per de-legalizzare l’aborto occorre la piena e diffusa convinzione che sia un omicidio; ma la sua «legalità» convince e alimenta la convinzione che sia una cosa «normale», perché mai si può pensare che lo Stato organizzi e finanzi l’uccisione di un essere umano innocente. Forse è vero. Ma è anche vero che due millenni fa, in quello che sarebbe diventato il nostro mondo storico, l’aborto già era un fatto «normale» (con buona pace di chi considera la sua «legalizzazione» un progresso: è stato un ritorno al passato remoto, in realtà). L’insegnamento e la testimonianza cristiani, nutriti da santità e martirio, provocarono anche su questo punto una conversione radicale delle idee, un’autentica metànoia. Chi può negare che anche oggi sia possibile, con fede e ragione, senza negare la potenza dello Spirito?

Giovanni Formicola
avvocato – Portici (Na)

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