Il magistrato Domenico Airoma ha recentemente letto l'intervista a don Pietro Zardo e, da questa lettura, ha preso lo spunto per offrire la riflessione che segue.
O Signore,
ascolta la mia preghiera per i giudici.
Devono ascoltare molte storie:
dà loro orecchie per udire l'onesta verità.
Devono distribuire la giustizia come Re Salomone:
dà alle loro menti la necessaria saggezza.
Devono condannare crudeltà e ingiustizia:
dà loro misericordia e forza. (…)
Mirabile e terribile l’incipit della preghiera di madre Teresa di Calcutta per i giudici.
Mirabile perché racchiude in sé tutta la deontologia del giudice.
Terribile perché è la misura di quanto sia diverso, oggi, il sentire ed il fare dei giudici.
Cosa ha reso così distanti i giudici da quel modello?
Riprendendo le parole di madre Teresa, è da tempo ormai che i giudici si sono resi sordi alla Verità.
La verità. E’ questo il tormento di ogni giudice: come fare per avvicinarsi il più possibile al vero e rendere giusta la sentenza emessa.
L’alternativa è scolpita a chiare lettere nel Vangelo.
Seguire l’esempio di Pilato e chiedersi, senza però ricercare una risposta, che cosa sia la verità, oppure comportarsi come il centurione sotto la croce e osservare con umiltà il reale e trarne il giudizio:“Veramente quest’uomo era il figlio di Dio!”.
Quale umiltà, e soprattutto, quando l’umiltà è condizione per la conoscenza e, quindi, per il retto giudizio?
“Guai a quel giudice - ha scritto tempo fa un magistrato - che a somiglianza del fariseo di fronte al pubblicano è soddisfatto della sua sentenza perché sente di essere un uomo giusto di fronte a una schiera illimitata di peccatori. Pessime sarebbero le sentenze pronunziate con tale spirito, che è quello vuoto del vanitoso, superbo peccatore. Saggio invece quel giudice che farà sentire alle parti come la sua decisione, inflessibile ed equilibrata, rispecchia il profondo sentimento cristiano dell’amore, perché egli non si sente affatto dissimile da coloro che giudica”.
L’umiltà del giudice postula, dunque, umanità. L’umanità intesa non come vuota clemenza, lavacro delle proprie e delle altrui colpe, ma come abito mentale, abitudine a tener presente che la legge è per l’uomo e non l’uomo per la legge (Pio XII).
E porre l’uomo al di sopra delle leggi scritte, significa innanzitutto riconoscere i limiti propri e quindi quelli delle persone da giudicare; ma vuol dire anche sacrificare le libertà degli uomini se e nella misura in cui ciò sia giustificato dal diritto, così come non applicare la legge ingiusta e smettere la toga se le norme comprimono, senza giustificazione, i diritti che ciascuno porta scritti dentro di sé.
Che fare, allora? Come acquisire, cioè, questo abito, che è, in definitiva, il modo stesso di essere del giudice? “Il magistrato è ottimo - è stato detto - quando si affidi alla diligenza più che all’ingegno per avvicinarsi alla verità”.
Quanto poco esaltante, all’apparenza, è una prospettiva di tal fatta. Ma quanto impegnativa! E’ il giudice diligente, infatti, che matura la capacità di accostarsi con rispetto ai fatti, al processo, alle parti; e così facendo si spoglia dei propri pre-giudizi, del proprio senso di onnipotenza, combatte l’ipertrofia dell’io e riduce al massimo l’erroneità del giudizio.
Ugo Betti, in “Corruzione a Palazzo di Giustizia”, ci ha dato un ritratto, anch’esso mirabile e terribile, di vecchio magistrato sul finire della carriera: “Per lunghi anni, ascoltando in silenzio molte bugie, essi hanno esaminato azioni umane di straordinaria sottigliezza e perfidia. La loro esperienza è immensa. La gente vede, oltre il tavolo, dei signori un po’ logorati e cerimoniosi. Ma in realtà (…) sono dei lottatori (…). Generalmente hanno il sonno difficile, e così…covano le loro idee a lungo. Sono capaci di ascoltare attentamente, tenaci, prudentissimi”.
Dunque: umiltà tenace; è questa la strada. Come fare, però, per conservare quest’abito, farlo diventare uno stile di vita professionale? Conservando intatta la sofferenza del giudicare. “E’ questo monologo interiore - ha scritto non un magistrato - che nobilita il giudice anche nell’errore. Quando le cause non passano più per i punti obbligati della scienza e della coscienza, il magistrato diventa un funzionario come tanti. La sua fatica si riduce nel saper aprire il codice alla pagina giusta. Il codice diventa il libro dei libri, l’enciclopedia di Stato dei delitti e delle pene”.
Disporre dell’onore, della libertà, degli averi, dell’avvenire, della vita dei propri simili; basterebbe riflettere, solo per un attimo, sugli effetti del giudicare, per esclamare, da un lato: quali funzioni sublimi!, ma dall’altro: quali terribili compiti! Allora, la sofferenza del giudicare è, forse, condizione prima per maturare la capacità di accostarsi il più possibile al vero, per la capacità stessa di giudicare. Smarrire questa sofferenza, cloroformizzarla, o, peggio ancora, esorcizzarla piegando il giudizio al perseguimento di un obiettivo ritenuto superiore per ideologia o per interesse, è, oggi, il dramma del giudice, la vera questione morale della magistratura.
Domenico Airoma,
Procuratore aggiunto – Cosenza
O Signore,
ascolta la mia preghiera per i giudici.
Devono ascoltare molte storie:
dà loro orecchie per udire l'onesta verità.
Devono distribuire la giustizia come Re Salomone:
dà alle loro menti la necessaria saggezza.
Devono condannare crudeltà e ingiustizia:
dà loro misericordia e forza. (…)
Mirabile e terribile l’incipit della preghiera di madre Teresa di Calcutta per i giudici.
Mirabile perché racchiude in sé tutta la deontologia del giudice.
Terribile perché è la misura di quanto sia diverso, oggi, il sentire ed il fare dei giudici.
Cosa ha reso così distanti i giudici da quel modello?
Riprendendo le parole di madre Teresa, è da tempo ormai che i giudici si sono resi sordi alla Verità.
La verità. E’ questo il tormento di ogni giudice: come fare per avvicinarsi il più possibile al vero e rendere giusta la sentenza emessa.
L’alternativa è scolpita a chiare lettere nel Vangelo.
Seguire l’esempio di Pilato e chiedersi, senza però ricercare una risposta, che cosa sia la verità, oppure comportarsi come il centurione sotto la croce e osservare con umiltà il reale e trarne il giudizio:“Veramente quest’uomo era il figlio di Dio!”.
Quale umiltà, e soprattutto, quando l’umiltà è condizione per la conoscenza e, quindi, per il retto giudizio?
“Guai a quel giudice - ha scritto tempo fa un magistrato - che a somiglianza del fariseo di fronte al pubblicano è soddisfatto della sua sentenza perché sente di essere un uomo giusto di fronte a una schiera illimitata di peccatori. Pessime sarebbero le sentenze pronunziate con tale spirito, che è quello vuoto del vanitoso, superbo peccatore. Saggio invece quel giudice che farà sentire alle parti come la sua decisione, inflessibile ed equilibrata, rispecchia il profondo sentimento cristiano dell’amore, perché egli non si sente affatto dissimile da coloro che giudica”.
L’umiltà del giudice postula, dunque, umanità. L’umanità intesa non come vuota clemenza, lavacro delle proprie e delle altrui colpe, ma come abito mentale, abitudine a tener presente che la legge è per l’uomo e non l’uomo per la legge (Pio XII).
E porre l’uomo al di sopra delle leggi scritte, significa innanzitutto riconoscere i limiti propri e quindi quelli delle persone da giudicare; ma vuol dire anche sacrificare le libertà degli uomini se e nella misura in cui ciò sia giustificato dal diritto, così come non applicare la legge ingiusta e smettere la toga se le norme comprimono, senza giustificazione, i diritti che ciascuno porta scritti dentro di sé.
Che fare, allora? Come acquisire, cioè, questo abito, che è, in definitiva, il modo stesso di essere del giudice? “Il magistrato è ottimo - è stato detto - quando si affidi alla diligenza più che all’ingegno per avvicinarsi alla verità”.
Quanto poco esaltante, all’apparenza, è una prospettiva di tal fatta. Ma quanto impegnativa! E’ il giudice diligente, infatti, che matura la capacità di accostarsi con rispetto ai fatti, al processo, alle parti; e così facendo si spoglia dei propri pre-giudizi, del proprio senso di onnipotenza, combatte l’ipertrofia dell’io e riduce al massimo l’erroneità del giudizio.
Ugo Betti, in “Corruzione a Palazzo di Giustizia”, ci ha dato un ritratto, anch’esso mirabile e terribile, di vecchio magistrato sul finire della carriera: “Per lunghi anni, ascoltando in silenzio molte bugie, essi hanno esaminato azioni umane di straordinaria sottigliezza e perfidia. La loro esperienza è immensa. La gente vede, oltre il tavolo, dei signori un po’ logorati e cerimoniosi. Ma in realtà (…) sono dei lottatori (…). Generalmente hanno il sonno difficile, e così…covano le loro idee a lungo. Sono capaci di ascoltare attentamente, tenaci, prudentissimi”.
Dunque: umiltà tenace; è questa la strada. Come fare, però, per conservare quest’abito, farlo diventare uno stile di vita professionale? Conservando intatta la sofferenza del giudicare. “E’ questo monologo interiore - ha scritto non un magistrato - che nobilita il giudice anche nell’errore. Quando le cause non passano più per i punti obbligati della scienza e della coscienza, il magistrato diventa un funzionario come tanti. La sua fatica si riduce nel saper aprire il codice alla pagina giusta. Il codice diventa il libro dei libri, l’enciclopedia di Stato dei delitti e delle pene”.
Disporre dell’onore, della libertà, degli averi, dell’avvenire, della vita dei propri simili; basterebbe riflettere, solo per un attimo, sugli effetti del giudicare, per esclamare, da un lato: quali funzioni sublimi!, ma dall’altro: quali terribili compiti! Allora, la sofferenza del giudicare è, forse, condizione prima per maturare la capacità di accostarsi il più possibile al vero, per la capacità stessa di giudicare. Smarrire questa sofferenza, cloroformizzarla, o, peggio ancora, esorcizzarla piegando il giudizio al perseguimento di un obiettivo ritenuto superiore per ideologia o per interesse, è, oggi, il dramma del giudice, la vera questione morale della magistratura.
Domenico Airoma,
Procuratore aggiunto – Cosenza
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