In questo post propongo parte dell'intervista rilasciatami da don Marco Di Benedetto - sacerdote trevigiano e volontario nel carcere di Rebibbia a Roma -, riguardante il ruolo dei volontari nelle carceri. Il testo dell'intervista integrale è contenuto nella terza edizione del libro "Liberi reclusi. Storie di minori detenuti", pubblicato dalle Edizioni del noce.
Intervenendo
ad un convegno sulla realtà carceraria1
il giudice di sorveglianza al tribunale di Padova Linda Arata affermò
che - per arginare le violenze che si registrano in alcuni
penitenziari da parte di agenti nei confronti dei detenuti - è
necessario promuovere anche il volontariato: in un carcere, infatti,
i volontari non solo hanno il compito di seguire un recluso lungo un
preciso percorso di crescita umana e di comprensione del male
arrecato alle sue vittime, ma anche di rendere trasparenti le mura
della casa circondariale, perché possono testimoniare all'esterno
quanto lì avviene. Ma
volontari non ci si improvvisa. Con l'intervista che segue a don
Marco Di Benedetto2,
si è cercato di comprendere alcuni aspetti della figura del
volontario.
Don
Marco, come ti sei trovato a fare il volontario in carcere?
«Nel
settembre 2009 il Vescovo mi ha inviato a Roma per una
specializzazione in Liturgia. Da allora sono ospite del Pontificio
seminario lombardo, che accoglie i preti studenti dalle varie
diocesi, garantendo, oltre agli spazi vitali, anche un ritmo di vita
comunitaria e la possibilità di svolgere un servizio pastorale in
ausilio a qualche parrocchia della periferia di Roma, oppure in
carcere. Mi ricordo che ero in pullman, durante una specie di viaggio
di studio di inizio anno, un po’ spaesato. Non appena sentii dire
che si liberavano tre posti per il servizio in carcere, non ci pensai
due volte, e mi chiesi subito: “se non ora, quando?”.
Hai
dovuto fare a “spallate” per poter essere uno dei tre?
«No.
Ho scoperto che non è un servizio particolarmente ambito».
Ma
adesso sei ancora convinto di questa tua scelta?
«Devo
dire che, a distanza di tre anni, non mi sono ancora pentito di aver
seguito quell’istinto un po’ pazzo, anzi! D’altronde, per
decidere di essere volontari, troppa razionalità e troppo equilibrio
possono essere controproducenti».
In
base alla tua esperienza, quali potrebbero essere i primi consigli da
dare ad un aspirante volontario che si appresta a varcare il cancello
di un carcere?
«Credo
non serva parlare dei meriti incalcolabili del volontariato. E
tuttavia ogni singolo volontario o volontaria ha una sua motivazione
di partenza. Come dicevo, ci vuole una certa dose di pazzia per
partire, non troppi calcoli. Ma un certo discernimento sì. Cerco
sempre, in quel tratto di strada che dal centro di Roma mi porta a
Rebibbia - circa 30/40 minuti -, di richiamare a me stesso il motivo
per cui sono partito, perché il rischio di lasciarsi “imprigionare”
dal carcere c’è. Occorre accostarvisi con estrema delicatezza,
sospendere il giudizio rispetto a quello che si sente dire del
carcere, prendere coscienza che si entra, volenti o nolenti, in casa
altrui, in una complessa comunità di persone che fino a quel giorno
ha vissuto anche senza di te. Occorre entrare decisi, senza paura, ma
anche delicatamente, senza presunzione».
Quali
errori un volontario non deve assolutamente commettere quando ha un
colloquio personale con un recluso?
«Può
sembrare duro da parte mia dire questo, ma mi verrebbe da dire: “caro
volontario, non ascoltare il detenuto avendo già deciso a priori che
lui è la vittima dei cui diritti tu devi diventare il paladino”».
Puoi
spiegare questa tua affermazione?
«Certo.
Il volontario non è lì anzitutto per garantire i diritti del
detenuto - per questo c’è il garante dei detenuti -, ma per
permettergli di esercitare un diritto che già gli è concesso. Può
sembrare una sottigliezza da manuale, ma ho l’impressione che
quando noi volontari perdiamo di vista il focus della nostra presenza
in carcere e ci assumiamo compiti che non ci competono direttamente,
rischiamo di avere vita dura con le figure istituzionali o di
renderla tale anche a loro, senza riuscire ad aiutare il detenuto a
cogliere la diversità di occasione che ha nell’incontrare il
volontario, rispetto ai colloqui che fa con educatori, garanti,
psicologi, ecc.».
In
carcere i detenuti hanno bisogno di tante piccole cose, ma qual è
secondo te la cosa più importante che un volontario può consegnare
o trasmettere ad un recluso?
«Esatto,
questa domanda mi permette di dire qualcosa di più di quanto abbia
detto nella precedente risposta.
E’
inevitabile che il volontario venga travolto da richieste di tutti i
tipi, richieste spesso molto “materiali”. Ma tra una richiesta e
l’altra, ciò che ho scoperto essere il vero salto di qualità
della relazione, è l’offerta di una relazione alla pari. In
carcere tutto viene fatto in cambio di qualcos’altro o in vista di
un beneficio. Anche noi volontari entriamo pensando: “adesso vado
ad aiutare chi ha più bisogno di me”. Intenzioni sacrosante, ci
mancherebbe. Ma a un certo punto scopri che nella relazione col
detenuto - certo, non è possibile con tutti - c’è una domanda di
“parità” nel rapporto, di gratuità del colloquio. Ci sono
detenuti che mi hanno ringraziato commossi non tanto per i favori
fatti, ma per essere stato “uno di loro”. Mica ci riesco sempre,
però quando scopro che vengo cercato da qualcuno non più per avere
qualcosa, ma per condividere alla pari la vita, allora capisco che lo
scopo è proprio quello: aiutare la persona che si ha di fronte a
scoprire che oltre i propri bisogni materiali, a cui pure va data una
certa risposta senza cadere nell’assistenzialismo, c’è un
profondo bisogno relazionale, quell’affetto libero e gratuito dove
si entra con le dimensioni profonde di sé attraverso l’altro».
Che cos'è per te il
pietismo?
«Proprio
il contrario dell’atteggiamento appena descritto. Fintanto che il
volontario sarà condizionato dal sentimento di pietà verso il
detenuto, difficilmente riuscirà ad andare oltre la soddisfazione
dei bisogni primari di chi è recluso, con un duplice esito negativo:
per il detenuto, che non è aiutato a riabilitarsi come persona
dotata di responsabilità verso la propria vita, per poi acquisire
anche una responsabilità verso quella altrui, e per il volontario
stesso, che inevitabilmente si troverà frustrato nel non riuscire a
soddisfare i bisogni di tutti».
Nella
nostra società respiriamo un pesante clima di violenza: in
famiglia, nei rapporti tra i coniugi e tra genitori e figli...
soffriamo per la cosiddetta "malasanità" di alcuni
ospedali, ci si arrabbia per un posto auto "scippato" al
parcheggio, mentre la cronaca ci propina continui episodi di
aggressioni a persone inermi e non mancano casi di malcostume
politico. Tutta questa violenza può - secondo te - farci accettare o
comunque farci abituare a certi episodi di violenza in carcere da
parte di qualche agente nei confronti dei detenuti?
«Non
vedo come sia possibile accettare la violenza, ovun-que e per
qualunque motivo avvenga. Proprio mentre rispondo a questa domanda ho
ben presente quello che è avvenuto stamattina in uno dei reparti più
popolosi di Rebibbia. Approfittando del momento in cui si radunano i
detenuti per la messa nella cappella del reparto, qualcuno ha pensato
di regolare i suoi conti con un altro detenuto e si è scatenata una
brutta e violenta rissa di cui ancora non conosciamo le conseguenze
disciplinari. Violenza tra detenuti, dunque, ma anche tra detenuti e
agenti, e non sempre solo dei secondi contro i primi. Indubbiamente,
però, la violenza perpetrata da chi ha l’autorità del potere su
chi è più debole, è un'aggravante pesante, che in realtà denuncia
la mancanza di autorevolezza - e forse anche di dignità - da parte
di chi compie certi atti. Il fatto che questo accada anche in altri
contesti più o meno istituzionali deve condurre a una seria
riflessione sulle radici vere della violenza, usata da troppi come
“soluzione” al proprio senso di inferiorità.
Sullo
specifico degli operatori di polizia, o dei sanitari, o di chiunque
debba esercitare un potere di qualsiasi natura con persone più
deboli, la questione della selezione e della formazione permanente va
posta seriamente».
Don
Marco, a giugno 2012, nella chiesa di Selvana a Treviso, hai
partecipato con me ad un incontro pubblico sulla realtà carceraria.
In quell'occasione hai fatto un accenno ad un ragazzo di 23 anni
condannato all'ergastolo...
«Lo
ricordo bene, mentre lo guardavo andare via dopo il colloquio. Era da
poco che prestavo servizio come volontario e con la mia baldanza
giovanile, dopo avergli assicurato un aiuto per una cosa molto
semplice, gli ho chiesto: “ma quanto ti manca per uscire?”. Mi ha
risposto: “ho l’ergastolo”. Non sono riuscito più a dire
niente, se non un banalissimo “quando vuoi, richiamami”. E l’ho
guardato andarsene mentre mi chiedevo: “che futuro ci sarà per
lui?”. Poi, però, ho pensato anche al futuro spezzato della vita
che ha ucciso e ai famigliari di quella vittima. E facevo, o meglio,
faccio fatica a capire dove stia il confine che separa vittime e
colpevoli». [segue]
_____________________________
Note:
1
Il convegno si svolse a Camposampiero (Padova) il 14 giugno 2012
presso la sala parrocchiale della chiesa di San Marco. Tra i
relatori Luisa Bonaveno, Carlo Silvano e Linda Arata.
2
Don Marco Di Benedetto è nato nel 1976 a Montebelluna (Treviso).
Ordinato sacerdote nel 2005 è anche impegnato, da alcuni anni, come
volontario nel carcere di Rebibbia a Roma.
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