Col
suo libro intitolato “La pena di morte italiana”, Samanta
Di Persio ha alzato il velo steso sulla morte di persone recluse
nelle carceri o trattenute nelle celle di sicurezza delle forze
dell'ordine, avvenuta in circostanze alquanto misteriose o, come è
stato accertato in diversi casi, perché vittime della brutalità di
chi indossa una divisa per difendere i cittadini. Del libro di
Samanta di Persio si è già parlato a Treviso nel corso di un
incontro pubblico svoltosi nella parrocchia di Selvana con don Marco
di Benedetto, volontario a Rebibbia. Adesso è la stessa autrice a
parlarcene.
Samanta,
perché hai scritto questo libro?
“La
pena di morte italiana” avrebbe dovuto essere il mio secondo
libro: il terremoto del 6 aprile 2009 ha distrutto la mia città, e
così sono stata costretta a rimandarne di un anno la stesura.
Appena ho avuto un “tetto”, ho mantenuto fede alla promessa che
avevo fatto ad una madre: Ornella Gemini. Mi aveva colpito la
vicenda di suo figlio, Niki Aprile Gatti, un ragazzo incensurato di
23 anni, arrestato a San Marino nell’ambito dell’inchiesta
Premium, per presunta frode informatica. Fu tradotto a Sollicciano,
carcere di massima sicurezza, definito uno dei più duri dì Europa.
Il ragazzo fu indagato insieme ad altre 17 persone; tutti si
avvalsero della facoltà di non rispondere durante l’interrogatorio
di garanzia. Solo Niki testimoniò, e venti ore dopo la deposizione,
venne trovato morto nella sua cella. Niki per lo Stato italiano è
uno dei tanti detenuti che si uccide al primo ingresso in carcere.
Non è stata fatta alcuna perizia tossicologica per approfondire il
livido a forma di cerchio sul braccio e sono stati considerati
normali i furti avvenuti dopo la sua morte in casa e nell’azienda
dove lavorava. Nessuno ha pensato di scavare nelle testimonianze dei
due compagni di cella, che recavano non poche contraddizioni.
Mi
spieghi il titolo?
Ogni
anno in carcere muoiono circa 180 persone: siamo tra i primi posti
nella classifica europea.
Se
il Ministro della Giustizia polacco si è dimesso dopo il suicidio
di un detenuto, da noi sappiamo che per quasi vent’anni i vari
guardasigilli sono stati impegnati a salvaguardare la libertà dei
mafiosi di Stato, dei corrotti, non hanno investito nel
miglioramento delle strutture, sulla qualità della vita all’interno
delle mura, sul personale. Per la Corte europea dei diritti
dell’uomo, le carceri italiane sono fuori legge; nel 2009 il
nostro Paese è stato condannato per trattamenti inumani e
degradanti - con successivo risarcimento danni a carico degli
italiani - perché lo spazio a disposizione per ogni detenuto nelle
carceri italiane era di circa tre metri quadri, mentre secondo
l’Europa dovrebbe essere di 7,5 metri quadri. Ogni anno avvengono
circa settanta suicidi; fra questi, purtroppo, molti sono da
approfondire.
Come
sono, ad esempio, i casi di Aldo Bianzino e Stefano Cucchi. Erano
nel luogo più sicuro per antonomasia, ma lì sono stati ritrovati
senza vita, con corpi lividi, irriconoscibili agli occhi dei
parenti. Se la legge prevede l’arresto per determinati reati, come
quello di coltivazione e spaccio di marijuana, in base all’articolo
27 della Costituzione, la pena deve tendere alla rieducazione, non
alla morte.
Hai
avuto difficoltà a pubblicare questo libro?
Nel
libro c’è la prefazione di Beppe Grillo perché dal 2008, quando
uscì “Morti bianche”, il mio primo libro, è iniziata
una collaborazione con “Casaleggio associati” (staff di
Grillo, ndr). Grillo è stato uno dei pochi a dare spazio da
subito, sul suo blog, alle vicende di Ornella Gemini, Patrizia
Moretti (mamma di Federico Aldrovandi, ndr), Roberta Radici
(moglie di Aldo Bianzino, ndr), Giuliana Rasman, Ilaria
Cucchi, ed altre storie di violenza da parte delle forze di polizia.
Quando gli ho proposto questo libro, ho avuto immediatamente una
risposta affermativa.
Come
hai fatto a raccogliere il materiale per la stesura del libro?
Ho
incontrato tutti i testimoni; solo la vicenda di Aldo Bianzino l’ho
ricostruita dal blog di Grillo, perché avrei dovuto intervistare
Rudra Bianzino (figlio di Aldo, ndr) ancora minorenne. Non
volevo infierire sui ricordi che ogni volta riaprono sicuramente una
ferita non rimarginata. Ho letto referti - spesso con cancellazioni,
parole indecifrabili -, atti processuali, libri sul tema. Nel libro
non ci sono interviste al personale, ma ho parlato con agenti,
comandanti, assistenti sociali, volontari, e poi li ho incontrati
durante le presentazioni.
Mi
racconti, in sintesi, la storia che più di altre ti ha
impressionato e che hai inserito in questo libro?
La
vicenda più disumana, che faccio fatica ancora oggi a comprendere
come possa essere avvenuta e soprattutto come si sia conclusa, è la
morte di Riccardo Rasman. Un ragazzo che non ha fatto del male a
nessuno, non ha ucciso, non ha rubato, non ha violentato, che era
affetto semplicemente da schizofrenia paranoide e per questa
patologia era in cura presso l’ospedale di Domio. La polizia
arrivò sotto il suo palazzo, chiamata dal portiere per lo scoppio
di petardi, salì le scale, sfondò la porta dell’appartamento del
giovane, lo legò con il fil di ferro. Riccardo morì per asfissia
da posizione; dalle foto si vedeva il volto pieno di lividi. Dalle
indagini risultò che furono usati dei manganelli. Dopo anni, in
questi casi non c’è una corsia preferenziale, la Corte di
Cassazione ha confermato la condanna dei poliziotti a sei mesi, in
primo e secondo grado. Chi indossa una divisa non è immune dal
rispetto della Legge, anzi, fa un giuramento di fronte alla
Costituzione e dovrebbe tutelare ed essere il punto di riferimento
dei cittadini. Chi compie questi gesti non dovrebbe essere coperto
dai colleghi, dai superiori, ma dovrebbe piuttosto essere
allontanato, espulso, così come un giocatore di calcio che sbaglia.
Ci
sono altre storie che avresti voluto raccontare in questo libro?
Se
non decidi di fermarti, i libri di denuncia non finiresti mai di
scriverli; in Italia ogni giorno c’è materiale per un’inchiesta.
Perché
consigliare ad un giovane la lettura di questo libro?
Notoriamente
non sono molto brava a farmi pubblicità. E' una critica che chi mi
conosce mi rivolge spesso. “La pena di morte in Italia” è
un libro che è stato protagonista di tesi di maturità e
addirittura di laurea per una studentessa di Bruxelles.
Nei
prossimi anni, se non ci sarà un passo indietro, vedremo i danni
della riforma Gelmini, che ha tolto dal programma di storia della
quinta elementare la Seconda guerra mondiale; è proprio a questa
età che un bambino inizia a formarsi ed è naturale rimanere
affascinati dal potente, dal dittatore di turno oppure dal
partigiano, il resistente. Castrare la curiosità, l’opportunità
di far sbocciare lo spirito critico, sarà deleterio per le nuove
generazioni, perché già oggi siamo in uno stato di coma. Se
l’Italia viene condannata al pagamento di pene pecuniarie perché
chi governa è un incapace e non è in grado di perseguire
l’interesse collettivo, dovrebbe esserci un sollevamento popolare.
In questo Paese c’è ancora gente che suda per arrivare a fine
mese, e non dovrebbe tollerare che le proprie tasse vengano
utilizzate per pagare le multe della classe dirigente che non
rinuncia ad un privilegio, e chiede piuttosto il conto ai comuni
cittadini. Informarci, studiare, conoscere è un nostro
diritto/dovere: dovremmo leggere a prescindere, giovani e meno
giovani, altrimenti ci porteranno via tutto, perfino il passato.
(a cura di Carlo Silvano, presidente dell'Associazione culturale "Nizza italiana",
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Samanta Di Persio, "La pena di morte italiana. Violenze e crimini senza colpevoli nel buio delle carceri", Edizioni Rizzoli 2011, euro 15.
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