La mattina del 17 aprile 2010 varcai per la prima volta l'ingresso dell'“Istituto penale per i minorenni” (1) di Treviso: ad attendermi, nel suo ufficio, il direttore Alfonso Paggiarino, che da dietro alla sua scrivania, maneggiando un certo numero di lettere con tanto di timbri e firme, mi comunicò che i suoi superiori con sede a Venezia, così come quelli del Ministero di Grazia e Giustizia a Roma, avevano rilasciato tutte le autorizzazioni necessarie a consentirmi di intervistare – al fine di pubblicare un libro – sia i responsabili e gli operatori dell'Ipm, che i detenuti minori.
Ma perché questo libro? Perché mi trovavo nell'ufficio del direttore dell'Ipm?
Avevo conosciuto il dott. Paggiarino due mesi prima nella parrocchia di “San Giorgio martire” a Quinto di Treviso, in occasione della presentazione del libro “Condannati a vivere”, che avevo pubblicato insieme al cappellano del carcere maggiore don Pietro Zardo; nel corso del dibattito tra il pubblico e i relatori era stata più volte sottolineata, anche dallo stesso Paggiarino, l'esigenza di fare prevenzione per porre un freno alla delinquenza. In questi ultimi anni, d'altronde, tanti penitenziari stanno registrando un sovraffollamento di presenze dovuto, molto probabilmente, all'esigenza di garantire la sicurezza dei cittadini. Sembra infatti che l'inasprimento delle pene deciso dal legislatore abbia l'obiettivo di rassicurare i cittadini, particolarmente preoccupati da certe notizie di cronaca nera.
In quella, come in altre occasioni, ho potuto notare che, in genere, chi partecipa ad incontri pubblici sulla realtà del carcere di Treviso è portato, alla fine del dibattito, ad avere parole di comprensione nei confronti di chi – pur avendo commesso reati gravi –, sconta la propria pena vivendo e soffrendo in celle anguste, locali che dovrebbero accogliere due detenuti e invece ne stipano insieme quattro, e dove sono costrette a convivere persone di diversa etnia, lingua e religione, che hanno commesso reati diversi e hanno abitudini diverse.
Ma quanto pesano queste parole di comprensione? Molto probabilmente vengono presto dimenticate di fronte ai problemi che la vita quotidiana ci pone. Ho ricevuto lettere e commenti al libro sopra citato da parte di persone che si dichiarano oneste – e probabilmente lo sono – e ogni giorno devono fare i conti con la cosiddetta malasanità, con la cattiva burocrazia e con la scuola che non forma adeguatamente i propri figli a causa della scarsità di fondi che lo Stato eroga per i vari servizi pubblici. Non manca chi ha difficoltà economiche a causa di un lavoro precario o, addirittura, perché non ha un lavoro, e quindi gli viene spontanea sul volto una smorfia di rabbia quando, a qualche incontro pubblico, si sostiene che a chi sta uscendo dal carcere bisognerebbe procurare un lavoro e un posto per dormire.
Il denaro pubblico – sono in tanti a pensarlo – va investito per dare delle risposte concrete a chi rispetta le regole della convivenza civile, e lavora per il benessere collettivo. Un discorso, questo, che non fa una piega, a meno che non si voglia procedere a interrompere quel circuito che ogni giorno alimenta le pagine che i giornali dedicano alla cronaca nera.
In effetti, quando si parla di criminalità, non bisogna pensare solo a certe bestie sanguinarie che uccidono tra mille tormenti le proprie vittime: in Italia molte persone sono recluse per reati che contemplano pene anche di pochi anni, quanto basta perché il detenuto si bruci ogni possibilità lavorativa, e con essa una fonte di guadagno, per non ritrovare alcun legame affettivo e non avere nemmeno un posto dove dormire una volta varcato il portone del carcere. In queste condizioni la strada del crimine viene imboccata per l'ennesima volta. Ecco che allora nelle nostre comunità ci ritroviamo di nuovo un soggetto che, in pochi minuti, può commettere atti tali da compromettere o distruggere la vita di altre persone.
Cosa fare allora? Una persona che ha commesso una truffa o un furto si può tenerla in carcere per tutta la vita a spese della collettività? E se questo costo non si può sopportare, si può ipotizzare di reinserire nel nostro ordinamento giudiziario la pena di morte? Se queste due strade non si possono percorrere, allora bisogna riflettere seriamente su cosa fare quando per un detenuto si avvicina il giorno dell'uscita dal carcere. E se ci si pone questa preoccupazione per una persona adulta, ancora maggiore dev'essere l'attenzione verso chi si ritrova dietro le sbarre prima di aver compiuto i diciotto anni.
Ma perché questo libro? Perché mi trovavo nell'ufficio del direttore dell'Ipm?
Avevo conosciuto il dott. Paggiarino due mesi prima nella parrocchia di “San Giorgio martire” a Quinto di Treviso, in occasione della presentazione del libro “Condannati a vivere”, che avevo pubblicato insieme al cappellano del carcere maggiore don Pietro Zardo; nel corso del dibattito tra il pubblico e i relatori era stata più volte sottolineata, anche dallo stesso Paggiarino, l'esigenza di fare prevenzione per porre un freno alla delinquenza. In questi ultimi anni, d'altronde, tanti penitenziari stanno registrando un sovraffollamento di presenze dovuto, molto probabilmente, all'esigenza di garantire la sicurezza dei cittadini. Sembra infatti che l'inasprimento delle pene deciso dal legislatore abbia l'obiettivo di rassicurare i cittadini, particolarmente preoccupati da certe notizie di cronaca nera.
In quella, come in altre occasioni, ho potuto notare che, in genere, chi partecipa ad incontri pubblici sulla realtà del carcere di Treviso è portato, alla fine del dibattito, ad avere parole di comprensione nei confronti di chi – pur avendo commesso reati gravi –, sconta la propria pena vivendo e soffrendo in celle anguste, locali che dovrebbero accogliere due detenuti e invece ne stipano insieme quattro, e dove sono costrette a convivere persone di diversa etnia, lingua e religione, che hanno commesso reati diversi e hanno abitudini diverse.
Ma quanto pesano queste parole di comprensione? Molto probabilmente vengono presto dimenticate di fronte ai problemi che la vita quotidiana ci pone. Ho ricevuto lettere e commenti al libro sopra citato da parte di persone che si dichiarano oneste – e probabilmente lo sono – e ogni giorno devono fare i conti con la cosiddetta malasanità, con la cattiva burocrazia e con la scuola che non forma adeguatamente i propri figli a causa della scarsità di fondi che lo Stato eroga per i vari servizi pubblici. Non manca chi ha difficoltà economiche a causa di un lavoro precario o, addirittura, perché non ha un lavoro, e quindi gli viene spontanea sul volto una smorfia di rabbia quando, a qualche incontro pubblico, si sostiene che a chi sta uscendo dal carcere bisognerebbe procurare un lavoro e un posto per dormire.
Il denaro pubblico – sono in tanti a pensarlo – va investito per dare delle risposte concrete a chi rispetta le regole della convivenza civile, e lavora per il benessere collettivo. Un discorso, questo, che non fa una piega, a meno che non si voglia procedere a interrompere quel circuito che ogni giorno alimenta le pagine che i giornali dedicano alla cronaca nera.
In effetti, quando si parla di criminalità, non bisogna pensare solo a certe bestie sanguinarie che uccidono tra mille tormenti le proprie vittime: in Italia molte persone sono recluse per reati che contemplano pene anche di pochi anni, quanto basta perché il detenuto si bruci ogni possibilità lavorativa, e con essa una fonte di guadagno, per non ritrovare alcun legame affettivo e non avere nemmeno un posto dove dormire una volta varcato il portone del carcere. In queste condizioni la strada del crimine viene imboccata per l'ennesima volta. Ecco che allora nelle nostre comunità ci ritroviamo di nuovo un soggetto che, in pochi minuti, può commettere atti tali da compromettere o distruggere la vita di altre persone.
Cosa fare allora? Una persona che ha commesso una truffa o un furto si può tenerla in carcere per tutta la vita a spese della collettività? E se questo costo non si può sopportare, si può ipotizzare di reinserire nel nostro ordinamento giudiziario la pena di morte? Se queste due strade non si possono percorrere, allora bisogna riflettere seriamente su cosa fare quando per un detenuto si avvicina il giorno dell'uscita dal carcere. E se ci si pone questa preoccupazione per una persona adulta, ancora maggiore dev'essere l'attenzione verso chi si ritrova dietro le sbarre prima di aver compiuto i diciotto anni.
Ora, finalmente, sono riuscito a mandare in stampa questo libro e conto di portare le prime copie ad un incontro pubblico che si terrà il 14 gennaio 2011 a San Fior. Questo nuovo volume si intitola "Liberi reclusi. Storie di minori detenuti", edizioni del Noce.
(1) Attualmente in Italia sono 17 gli Istituti penali per i minorenni dislocati su gran parte del territorio nazionale (sono escluse le regioni della Val d’Aosta, Liguria, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Marche, Umbria e Molise perché registrano un minore tasso di devianza minorile). L'assetto organizzativo e gestionale degli Ipm è disciplinato dalla circolare n. 5391 del 17 febbraio 2006.
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