Le carceri italiane
stanno scoppiando e di certo il futuro Parlamento avrà altre
priorità da affrontare (come tasse, lavoro, istruzione, sanità,
ecc.), piuttosto che preoccuparsi sia delle condizioni dei detenuti,
in molti casi disumane, che dei disagi di quanti, a vario titolo,
lavorano nelle case circondariali. Se per il futuro non si prevedono
importanti cambiamenti nella politica carceraria, ed è necessario
comunque garantire la certezza della pena insieme al recupero della
persona detenuta, occorre allora anche ripensare ad un miglioramento
della presenza dei volontari nelle varie realtà carcerarie.
Personalmente condivido l'azione di volontariato che don Marco Di
Benedetto sta perseguendo nel carcere di Rebibbia: intervenendo ad un
recente incontro sulla realtà carceraria svoltosi presso la libreria
delle Paoline a Treviso, don Marco ha sostenuto che il volontario non
deve recarsi in carcere per garantire i diritti del detenuto, ma per
permettergli di esercitare un diritto che già gli è concesso. Può
sembrare una sottigliezza da manuale, ma spesso si ha l’impressione
che quando i volontari perdono di vista il focus della propria
presenza in carcere e si assumono compiti che non competono
direttamente a loro, rischiano di avere vita dura con le figure
istituzionali o di renderla tale anche a loro stessi, senza riuscire
ad aiutare il detenuto a cogliere la diversità di occasione che ha
nell’incontrare il volontario, rispetto ai colloqui che fa con
educatori, garanti e psicologi. Per il volontario è di fondamentale
importanza avviare un confronto col detenuto eliminando ogni forma di
pietismo e di assistenzialismo: il detenuto deve ricercare il
volontario non per avere soltanto sigarette e manciate di euro, ma
per potersi confrontare con una persona capace di aiutarlo a
riflettere su se stesso, sul male che ha arrecato ad altri compiendo
un reato e sulle modalità per mantenere o riallacciare legami
affettivi oltre il muro di cinta.
Ricevo una nuova riflessione sull'intervista rilasciatami da don Pietro Zardo. A scriverla è l'avv. Maria Bortoletto, consigliere provinciale dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. La Seconda guerra mondiale ha lasciato uno strascico di crimini compiuti ai danni delle popolazioni civili come mai era accaduto nel passato. E’ anche vero però che, a differenza del passato, per la prima volta nella storia, i responsabili di questi crimini sono stati processati e condannati dai Tribunali speciali creati appositamente dai vincitori a guerra finita (vedi Norimberga, Tokio, ecc.). Un tempo era la Storia e non gli uomini a giudicare i vinti e i vincitori. Fu dunque un atto di giustizia? Certamente sì, perché i crimini compiuti, per esempio dai tedeschi in Europa e dai giapponesi in Asia, meritavano una giusta punizione. Ma non si può tuttavia non sottolineare che la “giustizia” applicata da quei Tribunali speciali non fu del tutto imparziale. Erano infatti i vincito...
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