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Carcere, don Marco Di Benedetto e la figura del volontario


Le carceri italiane stanno scoppiando e di certo il futuro Parlamento avrà altre priorità da affrontare (come tasse, lavoro, istruzione, sanità, ecc.), piuttosto che preoccuparsi sia delle condizioni dei detenuti, in molti casi disumane, che dei disagi di quanti, a vario titolo, lavorano nelle case circondariali. Se per il futuro non si prevedono importanti cambiamenti nella politica carceraria, ed è necessario comunque garantire la certezza della pena insieme al recupero della persona detenuta, occorre allora anche ripensare ad un miglioramento della presenza dei volontari nelle varie realtà carcerarie. Personalmente condivido l'azione di volontariato che don Marco Di Benedetto sta perseguendo nel carcere di Rebibbia: intervenendo ad un recente incontro sulla realtà carceraria svoltosi presso la libreria delle Paoline a Treviso, don Marco ha sostenuto che il volontario non deve recarsi in carcere per garantire i diritti del detenuto, ma per permettergli di esercitare un diritto che già gli è concesso. Può sembrare una sottigliezza da manuale, ma spesso si ha l’impressione che quando i volontari perdono di vista il focus della propria presenza in carcere e si assumono compiti che non competono direttamente a loro, rischiano di avere vita dura con le figure istituzionali o di renderla tale anche a loro stessi, senza riuscire ad aiutare il detenuto a cogliere la diversità di occasione che ha nell’incontrare il volontario, rispetto ai colloqui che fa con educatori, garanti e psicologi. Per il volontario è di fondamentale importanza avviare un confronto col detenuto eliminando ogni forma di pietismo e di assistenzialismo: il detenuto deve ricercare il volontario non per avere soltanto sigarette e manciate di euro, ma per potersi confrontare con una persona capace di aiutarlo a riflettere su se stesso, sul male che ha arrecato ad altri compiendo un reato e sulle modalità per mantenere o riallacciare legami affettivi oltre il muro di cinta.

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