Quando si parla di carcere e detenzione inevitabilmente si pensa a pena, colpa ed espiazione. Una logica diabolica che condanna all'inferno eterno colui che non sa meditare altro che vendetta. Gli istituti di pena o case circondariali oggi sono il monumento eretto per mostrare e saziare la sete di vendetta di una parte della società, quella parte che non vuole riconoscere dignità ai detenuti. In Condannati a vivere, don Pietro Zardo, cappellano del carcere di Treviso, dice: "In questi anni ho imparato che il carcere porta a scontrarsi e a riflettere con se stessi, e tutti, indistintamente, hanno un bisogno inespresso: sentirsi rivalutati, sapere che il loro Dna è uguale a quello degli altri uomini".
Don Zardo parla degli extra-comunitari, dei tossico-dipendenti, dei transessuali e di coloro che si isolano anche in celle di pochi metri-quadri e sovraffollate dove il caldo e la sporcizia sono torture atroci e dove la scabbia è un ospite fisso. Da questa testimonianza si aprono i contributi di “voci” diverse come quella dell'avvocato Maria Bortoletto e quella di Lorella Sanguanini, familiare di un detenuto e di Domenico Airoma, Procuratore aggiunto di Cosenza. Tutte queste riflessioni raccolte da Carlo Silvano sono utili per avvicinarci ad una realtà a cui nemmeno vogliamo pensare credendo di poter vantare una coscienza linda e pura che punisce e si sente al di sopra dei sospetti.
(Lucia Pulpo, Cosmopolis)
Commenti
Posta un commento